Ed eccoci al secondo appuntamento sulle recensione di due degli otto film candidati agli Oscar 2021. Questa settimana le pellicole sono legate da un filo comune che le congiunge: sono profondi, indagatori dell’animo umano e si concentrano sui problemi che la nostra mente e il nostro corpo affrontano in momenti cruciali della vita. “The father” e “Sound of metal” sono entrambi anche le prime opere cinematografiche di due registi quali Florian Zeller e Darius Marder.

“IL PADRE”

Vi siete mai sentiti fuori dal mondo, esclusi, con la sensazione di non capire cosa sta accadendo? Ciò che fa The Father è prendere ogni logica e consapevolezza dello spettatore che guarda una mente consumata e metterla all’interno di essa. Lo spettatore non capisce, non coglie, proprio come il protagonista. Il tutto immerso in un’atmosfera cullata dalla musica lirica.

La storia è quella di Anthony (Anthony Hopkins), un uomo anziano probabilmente afflitto dal morbo di Alzheimer, che ne affronta i sintomi: egli è completamente smarrito, confuso, confonde continuamente ciò che è vero da ciò che non lo è. Il problema è che non se ne rende conto e pensa di essere perfettamente sano, tanto da rifiutare continuamente l’aiuto della figlia Anne (Olivia Colman) e metterla costantemente a disagio, entrambi vittime della patologia.

Non stiamo guardando da fuori, dal punto di vista dei personaggi sani, cosa succede; non siamo in grado di provare solo pena per il vecchietto in preda a crisi di memoria, siamo noi stessi i primi ad arrabbiarci per le situazioni di malinteso. Non si capiscono, siamo confusi, siamo preoccupati. Viviamo ogni sensazione da dentro Anthony proprio come se noi fossimo Anthony. Ed è asfissiante. Il senso di pesantezza e di gabbia lo si percepisce quando lui urla che quella in cui vive è casa sua quando in realtà la figlia gli dice che appartiene a lei. Sentiamo l’oppressione quando è convinto che la figlia sia sposata, vediamo noi stessi in primis il marito Paul, ma poi Anne ci confessa che è divorziata e che l’ex si chiamava James. Tante piccole cose ci confondono e noi non compatiamo il dolore di Anthony: lo viviamo. Anche l’ambiente intorno a lui è sempre soggetto a cambiamenti, per quanto in realtà sia sempre lo stesso: inizialmente si trova un divano nel salotto, poi invece c’è una poltrona, e se nei primi minuti della pellicola la cucina era di legno scuro, più avanti è di un colore molto chiaro. I personaggi sono sempre vestiti allo stesso modo per un’ora intera, ed è il solo Anthony a sentire il passare dei giorni, quando in realtà egli sta vivendo continuamente lo stesso.

Esattamente come il bambino che gioca con un sacchetto riempito d’aria che gli sfugge dalle mani, l’uomo cerca in tutti i modi di rincorrere questa palla gonfia d’aria chiamata memoria, ma che inafferrabile continua sfuggirgli dalle mani.

Il film ha ottenuto ben sei candidature ai premi Oscar.

 “SOUND OF METAL”

Cosa si prova a non sentire più nulla di ciò che ci era familiare da un giorno all’altro? Gli applausi, le parole di chi amiamo, la musica. In questo film riusciamo a vivere questo travaglio dal punto di vista di un ragazzo giovanissimo, Ruben, ex tossicodipendente e batterista del duo Blackgammon con la sua fidanzata, Lou. I due inizialmente vivono insieme nel van che utilizzano per spostarsi per i loro concerti per gli Stati Uniti, ma durante uno di questi Ruben inizia a sentire un fischio, poi tutto ovattato, e infine non sente più nulla. E’ spaventato, ma desidera continuare a suonare. Con l’aiuto di una comunità per ex tossicodipendenti sordi gestita da un ex alcolizzato sordo di nome Joe, rinascerà, forse, a poco a poco.

La maestria della ricchezza della musica metal all’inizio del film e poi la totale assenza di suoni per buonissima parte del racconto, racchiude appieno la metafora della vita di Ruben, in un “prima” e “dopo” assai doloroso. I fischi, la sensazione di sentirsi ovattati, scacciati e derisi da un mondo che prima aveva ciò che gli era di più essenziale: la sua batteria e la musica. In preda alla rabbia spesso rompe ogni cosa che lo circonda, ma passo passo riuscirà a imparare a vivere in questo nuovo mondo silenzioso e pieno di persone come lui che comunque si divertono, ridono, giocano, vivono. È un film doloroso, commovente, e Riz Ahmed è bravissimo a farci sentire la sua rabbia e allo stesso tempo il suo sconforto. Vorrà comunque operarsi per riuscire a tornare a sentire tutto ciò che gli è familiare, ma l’ostacolo più grande sarà capire che in realtà la nuova vita che gli è stata data non è difettiva, bensì un’occasione. Il film dona un senso di rinascita e di speranza, e tutti i momenti silenziosi in realtà servono solo a farci entrare ancora di più nella mente di Ruben, nella sua stessa vita, ed esattamente come accade con Anthony in The father, noi non siamo i coloro che guardano i malati dall’esterno: siamo esattamente loro, possiamo sentire ogni singola sensazione. Grazie alla maestria della macchina da presa, riusciamo a sentirci Ruben quando le riprese sono più ravvicinate, ed invece sentiamo tutto il mondo esterno, a lui è ormai estraneo, quando la macchina da presa gli è lontana.

Candidato a ben sei premi Oscar, è la prima opera da regista dello sceneggiatore Darius Marder, che esordisce però con un’opera concentrata sulla regia più che sulla scrittura.