Al di là delle facili retoriche, la pandemia di Covid-19 è destinata a lasciare segni profondi, che si evidenzieranno nei prossimi mesi. Anzitutto, una rinnovata spinta a investire nella sanità e nella ricerca scientifica pubbliche, uniche garanzie di risposte efficaci davanti a situazioni come queste. I Paesi e gli enti locali che nel corso degli anni hanno scelto di non rinforzare la sanità pubblica per favorire quella privata stanno pagando un prezzo altissimo. Dagli Stati Uniti al Regno Unito, dal Brasile alla Lombardia, quando si è trattato di fronteggiare un evento drammatico di vasta portata come la pandemia, la sanità privata ha mostrato di colpo tutti i suoi limiti. Aziende che hanno come obiettivo la massimizzazione dei profitti, ma che sono parte importante del sistema sanitario nazionale, danno priorità a quelle patologie le cui cure offrono maggiori margini di guadagno: non erano dunque pronte a farsi carico di una massa di contagiati bisognosi di unità di terapia intensiva e respiratori, e mancavano tanto di personale medico specializzato quanto di dispositivi di protezione personale. La sanità pubblica, ridotta negli anni, è quasi collassata davanti alla mole di malati da ricoverare, ma soprattutto non era preparata neanch’essa. Paradossalmente, Paesi molto più poveri hanno reagito meglio. Si è dimostrata l’importanza della medicina territoriale preventiva, capace di difendere la popolazione dal propagarsi del contagio. Ambulatori locali, paramedici in costante contatto con la popolazione, conoscenza dei metodi di protezione dai virus e bassa ospedalizzazione sono state le armi vincenti, mentre altrove si assisteva al tracollo della medicina altamente specializzata, incentrata sull’ospedale e alla strage degli anziani ospiti nelle RSA.
L’altro tema che sta emergendo dal dibattito in sede OMS è la responsabilità del mancato coordinamento tra i Paesi nel momento della diffusione della pandemia. Tradotto: l’abbandono – anzi, il boicottaggio – del multilateralismo ha ostacolato gli scambi di informazioni e l’uniformità nella risposta al virus, favorendo invece la competizione per accaparrarsi l’ipotetico vaccino. Si tratta di una declinazione in termini sanitari di quegli stessi problemi che già erano emersi in relazione all’economia e alla risoluzione dei conflitti. Il mondo che era entrato nella pandemia diviso, litigioso, scosso da guerre “vere” e da guerre commerciali ne sta uscendo sconfitto. Perché davanti a sfide globali servono risposte globali, che si parli di sanità o di cambiamento climatico.
E il mondo del sociale? Bene e male. Da una parte l’associazionismo, la galassia della cooperazione, il volontariato hanno dato un contributo enorme alla gestione della crisi, dall’altra sono essi stessi vittime dello tsunami economico che si è abbattuto sul mondo. Una cosa è certa, in Italia il Terzo Settore non potrà mai più essere l’alibi per una certa politica che in questi anni, in nome della sussidiarietà a prescindere, ha delegato importanti funzioni pubbliche non come riconoscimento della capacità ed efficienza del volontariato, ma per abbattere costi della sanità, della scuola, della protezione civile. Non è stata vera sussidiarietà, ma scaricabarile per fare cassa. Ma se vogliamo guardare in avanti, questa è una grande occasione per innovare nel campo del sociale. Il disagio, la povertà, i problemi della società richiedono risposte nuove, organizzazioni in grado di cogliere le sfide anche tecnologiche. L’accelerazione sui processi di automazione e di gestione robotica dei processi produttivi aumenterà esponenzialmente i livelli di disoccupazione. Il terzo Settore deve porsi come interlocutore di chi sta pensando il mondo del futuro e che spesso si lascia prendere dai tecnicismi dimenticando la dimensione sociale e umana. Dove conquistarsi un ruolo riconosciuto laddove si discutono le politiche e da dove è stato quasi sempre escluso.
Oggi le nuove povertà in Europa diventano consistenti e drammatiche. L’isolamento sociale e la marginalità delle persone anziane, dei disabili, di chi è escluso dal mondo del lavoro crescono. Non basterà aumentare la raccolta alimentare fuori dai supermercati, né moltiplicare i posti nei dormitori per i senza tetto. Il tanto temuto giorno in cui si sarebbero avverati molti dei rischi dovuti a politiche sbagliate denunciate da anni dal terzo Settore è arrivato all’improvviso. La solidarietà che negli ultimi anni era stata derisa e ri-classificata come carità, di colpo è tornata ad essere rivendicata a voce alta nei confronti dell’Europa, dello Stato, degli altri.
Il mondo di domani probabilmente non sarà migliore, ma senza dubbio dovremo prendere atto di queste linee di tendenza. E’ non sarà una questione ideologica, ma di sensibilità sociale e ambientale non più come una medaglietta, ma nei fatti. La politica tutta è chiamata e ripensare i propri programmi e il mondo della solidarietà a raddoppiare gli sforzi. Forse per la prima volta si è capito fino in fondo che siamo tutti sulla stessa barca, che il mondo è un sistema interconnesso e che le priorità non possono essere ancora solo i salvataggi bancari o la tutela della finanza internazionale. Ora sappiamo tutti che è meglio che sulla nostra barca, che sia lo Stato, la regione o il comune, il capitano e il suo equipaggio siano capaci e preparati. Il dovere del Terzo Settore è lavorare perché quel nuovo mondo che ci attende sia inclusivo e solidale, perché nessuno mai più resti da solo.