La prima serie tv firmata dai fratelli D’Innocenzo ci fa immergere in un mondo dalle tinte fosche e dall’ambientazione noir. Si chiama Dostoevskij, ma nella trama non ripercorre le opere dello scrittore russo: è un cupo thriller ambientato ai giorni nostri che, attraverso la caccia a un pericoloso serial killer, racconta i risvolti più sofferenti dell’umanità.
La serie Sky Original prodotta da Sky Studios con Paco Cinematografica, è composta da sei episodi, che dal 27 novembre saranno disponibili in streaming su Sky Atlantic e su Now!.
Trama
Seguiamo le orme del poliziotto Enzo Vitello (interpretato da Filippo Timi, già visto in Vincere, I delitti del BarLume, Favola, Le otto montagne) mentre indaga sul serial killer soprannominato Dostoevskij che, dopo aver ucciso le sue vittime, lascia sul luogo del delitto lunghe lettere con i dettagli dell’assassinio. Enzo è un uomo profondamente solo, che vediamo sopravvivere a tentativi di suicidio e fare i conti con l’intenso dolore causato dal rapporto tormentato con la figlia Ambra (Carlotta Gamba di America Latina e Dante), abbandonata in tenera età e ora tossicodipendente.
Annegando in un’oscurità che lo circonda e che risuona profondamente dentro di lui, Enzo Vitello inizia un rapporto epistolare con l’assassino, che lo costringe a guardare dentro di sé e ad affrontare un segreto che lo tortura, lo stesso che l’aveva indotto ad abbandonare la figlia anni prima.
A capo dell’avamposto di polizia c’è Antonio Bonomolo (Federico Vanni), uomo dalla morale sana ma fragile, appesantito da un matrimonio sonnambulo dove ormai non ci si interroga più sull’essere o non essere felici, dedica la sua esistenza al lavoro e affianca a Vitello un giovane e ambizioso poliziotto (Gabriel Montesi), malgrado ciò scateni la rivalità fra i due.
Il malessere dei personaggi non si esaurisce e non risparmia nulla allo spettatore, costringendolo a dettagli vividi e spesso raccapriccianti, e a fare i conti con estreme sofferenze che sembrano non voler lasciare alcuno spazio alla luce.
E anche il mondo in cui si muovono i personaggi rispecchia questi stati interiori: ambientazioni desolate dipingono un mondo inquieto e senza via di scampo, dove ogni cosa è grigia, diroccata, in rovina.
La parola ai protagonisti
La serie, con i suoi ritmi lenti e il suo stile estremamente cinematografico è perfettamente in linea con i precedenti lavori dei gemelli romani, già sceneggiatori di titoli come La terra dell’abbastanza, Favolacce e America Latina. Fabio e Damiano D’Innocenzo «puntano la penna contro se stessi»: non intendono accusare l’umanità né la società moderna, ma tirare fuori un dolore intenso e personale, e dare voce al loro sguardo inquieto sul mondo. «Quel malanno, quel malessere, è realmente il mio — racconta Damiano D’Innocenzo —. Non vorrei che sembrasse un accanimento verso ciò che non mi piace nel mondo, né un atto di denuncia banalissimo. No, io parlo di me stesso, cerco di venire a patti coi miei fantasmi, cerco di comprendere me e mio fratello».
La serie è così cruda e raggelante da rivelarsi a tratti disturbante, indugia in un dolore dalle cause non sempre chiare ma estremamente pervasivo, e lo porta alla luce per osservarlo e rendergli dignità.
In ogni puntata vengono narrate le «estreme conseguenze dell’essere vivi»: il protagonista è un uomo che ha perso tutto in una terra di uomini che hanno perso quasi tutto, dove caos, miserie e sofferenze la fanno da padroni.