Questa settimana rieccomi con altri due film da recensire (e purtroppo settimana prossima ci saranno gli ultimi due film da analizzare perché poi finalmente il 25 potremo vedere la tanto attesa cerimonia degli Academy Awards).
Oggi si parla di due film che mi hanno inevitabilmente colpita ed emozionata fino a farmi arrivare alle lacrime: si parla di minoranze, in particolare di nomadi moderni durante la Grande Recessione con “Nomadland” di Chloé Zhao, e della comunità dei neri in America (e in particolare a Chicago) con il partito delle Pantere Nere negli anni Sessanta e Settanta con “Judas and the Black Messiah” di Shaka King.
“NOMADLAND”
Come ci si sente a non avere basi solide e ciò che diamo di più scontato, cioè un tetto sopra la testa? Questa è la storia di Fern, una sessantenne che nel periodo della Grande Recessione, cioè tra il 2007 e il 2013, dopo aver perso il marito e il lavoro, attraversa gli Stati Uniti sul suo furgone, facendo la conoscenza di altre persone che hanno deciso o sono stati costretti a vivere una vita da nomadi moderni come lei. Il ritratto che Chloé Zhao, una delle due donne candidate agli Oscar per il premio di miglior regia insieme a Emerald Fennell per “Una donna promettente”, fa della vita di questi nomadi è così toccante e vero da sembrare a tratti un documentario. Il premio di miglior fotografia ai BAFTA è più che meritato: un’immagine che rimane particolarmente impressa è quella di Fern che al tramonto e con una lanterna in mano e cammina nel campo pieno di furgoni e camper, oppure un’altra è una carrellata in movimento che simula il tragitto del camioncino su una strada affacciata sul mare con il sole a illuminare tutto d’oro, o ancora, il grigiore che fa da contrasto alla felicità e libertà di Fern mentre si avvicina al mare in tempesta. Moltissimi i momenti di contrasto infatti, in cui l’animo della protagonista potremmo dedurre essere di sconforto e invece è di tranquillità, oppure ci pare rilassata e invece è in preda alla disperazione. La capacità di Frances McDormand è proprio quella di sembrare ed essere così umana da far quasi paura. Percepiamo e viviamo tutto ciò che lei stessa attraversa con una umanità che arriva a far male perché si vede tutto ciò che è quotidiano che solitamente viene silenziato nei film. Non assistiamo a una storia come un’altra di una singola persona, vediamo tutte le storie di chi come lei vive tutt’oggi questo. La storia di Fern è la storia di tutti i nomadi. Lei, come molti altri, fa moltissimi lavori, ed anche dei più disparati, ma aiutare le altre persone sarà quello che farà uscire dal dolore molti di loro: ritrovarsi attorno al fuoco e parlare, mangiare insieme come una vera e propria comunità, instaurare amicizie e organizzare gite, viaggi, alleggerisce il peso che tutti si portano sulle spalle, facendosi sostegno a vicenda. Nei discorsi di uno dei mentori di un campo di nomadi emerge la voglia di rinascita, e questo discorso è messo in corrispondenza con un’inquadratura alternata su un cactus per tutta la durata del monologo. L’analogia delle spine e del dolore ma anche della bellezza di queste persone, che si sono dovute armare di corazze di spine, che soffrono, ma che sopravvivono e vanno avanti persino nei momenti più torridi. Questo monologo è uno dei pochi interventi parlati di tutto il film, poiché manca tantissimo di dialoghi, e questo non fa che accrescere l’effetto del silenzio, della solitudine di Fern, della calma soffocante che la circonda e dei paesaggi immensi che incontra.
Il film è candidato a ben 6 Oscar e la sera dei BAFTA ha vinto nelle categorie di miglior film, miglior attrice protagonista, regia e il già citato fotografia.
“JUDAS AND THE BLACK MESSIAH”
Vivere, lottare, morire per le persone. Questo il desiderio di Fred Hampton, a revolutionary. La storia vera, ambientata nella Chicago del 1967, del presidente della sezione dell’Illinois del partito delle Pantere Nere che vuole fondare un’organizzazione multiculturale per alleare le principali bande di Chicago, porre fine tutti insieme alle lotte razziali e lavorare ad un cambiamento. Hampton però viene identificato come una minaccia dall’FBI, che fa quindi infiltrare Bill O’Neal, un ladro nero, per creare scompigli, disinformazione all’interno dei vari gruppi e fare da spia. Il racconto di tutti gli eventi è alternato e al contempo anche narrato da un’intervista rilasciata dallo stesso O’Neal nel 1989.
Il titolo è una metafora che più azzeccata di così non poteva esserci. Il Giuda della situazione è Bill, un personaggio pieno di sfaccettature e così umano da far arrabbiare, ma non perché è impensabile e lascia interdetti il fatto che un nero tradisca i propri fratelli, ma perché non è il colore della pelle che ci rende più o meno leali nei confronti di chi dovremmo proteggere. Siamo esseri umani e siamo mossi tutti quanti da passioni, sentimenti e obiettivi, e O’Neal tenta di non finire in carcere dopo essere stato beccato per il furto di un’auto ed essersi finto un agente. Egli, per quanto tenti ogni volta di uscire dalla spirale in cui l’agente di polizia lo ha incastrato, non riesce mai a farlo perché il richiamo al denaro è sempre più forte di ciò che è davvero giusto. La figura di Bill è così controversa che vorremmo noi stessi urlare di fronte allo schermo a Fred che in realtà egli non è il compagno che egli pensa che sia: non è vero che li vuole aiutare, vuole solamente la sua parte dell’accordo, vuole guadagnarci. Il Messia è Fred Hampton, che con i suoi discorsi carichi di passione e pieni di poesia, ispirati ai grandi Martin Luther King e Malcom X, cattura l’attenzione di Deborah, una ragazza inizialmente schiva e diffidente dei suoi modi così prorompenti di raccogliere consensi. Fred è magnetico, un trascinatore di folle, è in grado di far arrivare alla pace gruppi che inizialmente si detestavano e mai si sarebbero aiutati a vicenda. Fred è una bellissima personalità, con un animo così buono da sembrare esattamente un Dio arrivato per salvare tutti, quasi da non parere nemmeno umano a volte. La sua gentilezza e il suo altruismo sono incredibili.
Purtroppo c’è troppo equilibrio tra i due personaggi, era prevedibile, ci sono due storie parallele che si inseguono dall’inizio alla fine, ma manca un accenno di profondità in entrambi, vediamo solo le superfici. Ci si sente inevitabilmente coinvolti, questo film sicuramente vi colpirà, però si percepisce quasi una parete di distacco tra noi e gli eventi. Ciò comunque non impedisce di sentire l’ingiustizia e un moto di rabbia crescere dentro ogni volta che la polizia entra in scena.
Questo splendido film si è aggiudicato il premio per miglior attore non protagonista a Daniel Kaluuya sia ai BAFTA che ai Golden Globes, e ben 6 candidature agli Oscar.