Chi scrive ha lavorato con Matteo Garrone, 20 anni fa, quando girava brevi servizi per la tv. Ma già si poteva intuire quello che sarebbe stato da ‘grande’. Un regista che privilegia un racconto dove, spesso, protagonista è lo sguardo dei soggetti che riprende. Sguardi che sono lì a raccontarci la paura, la disperazione, il disorientamento, la voglia di riscatto, ma anche l’incanto, lo stupore, l’emozione, l’amore. La summa di ciò la si ritrova in questo Pinocchio che uscirà il 19 dicembre nelle sale.
Era una sfida ardua, che qualcuno ha definito la ‘maledizione di Pinocchio’, visto che molti che si sono misurati con il classico di Carlo Collodi, non hanno avuto gran fortuna, basti pensare a Spielberg e a Benigni, che con il suo film si cimentò proprio nei panni del burattino più famoso al mondo e invece, qui, è stato chiamato ad impersonare Geppetto. Un padre adottivo che è l’archetipo per eccellenza del Padre.
Il film di Matteo Garrone nasce da un sogno, quello di Matteo bambino che a 6 anni rimase folgorato dal libro dello scrittore toscano.
Una scommessa dice Garrone che ha l’andamento di una fiaba per bambini che possa incantare e divertire tutti. Grazie agli ispiratori del regista che sono i Macchiaioli per i paesaggi, l’illustratore di Collodi, Enrico Mazzanti per i disegni dei personaggi e il Pinocchio di Comencini, l’incanto si intuisce in ogni inquadratura. Soprattutto grazie allo sguardo dei suoi protagonisti, nessuno escluso. A partire, ovviamente, dagli sguardi incrociati tra Geppetto, sognante e pieno di stupore, a quelli avidi di vita e trasognanti del burattino Pinocchio, occhi pieni di emozioni a contrasto della fissità delle striature del legno che rigano il suo volto (grazie allo stupefacente lavoro di Mark Coulier e Pietro Scola, il piccolo e bravissimo Federico Ielapi si è sottoposto a 4 ore di trucco tutti i giorni per tre mesi). Occhi interrogativi e titubanti persi tra il senso del dovere e la voglia di divertimento, perché ogni volta che sta per realizzarsi il miracolo della trasformazione da burattino a bambino sembra che debba ricominciare tutto daccapo affrontando le sue prove, allegorie della vita di ciascuno.
Non sarebbe però sufficiente a rendere l’atmosfera fiabesca se non ci fossero i comprimari – impossibile citarli tutti – di mastro Ciliegia, il Grillo parlante, la Fata, il Giudice, la Lumaca, il Maestro, l’Omino di burro, passando a quegli scriteriati del Gatto e la Volpe (alias Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini, coautore della sceneggiatura).
Godibilissimo il cammeo di Gigi Proietti, un Mangiafuoco che sembra Rasputin, ma con un gran bisogno d’amore.
Garrone, si capisce bene, la sua sfida con il sogno di quando era bambino, l’ha stravinta commuovendo e divertendo, con la colonna sonora di Dario Marianelli, che non fa rimpiangere quella mitica di Fiorenzo Carpi del Pinocchio di Comencini. Adesso, la parola al pubblico.